L’assunto comune ad ogni modello di trattamento psicoterapeutico, corrisponde ad una concezione dell’uomo per la quale gli eventi interni propri di ogni individuo interagiscono con quelli di uno o più individui provocando modificazioni nei protagonisti dell’interazione. Ogni intervento svolto da uno psicoterapeuta tende ad ottenere un effetto terapeutico sulla psiche di un altro individuo, portatore di sofferenza psichica.
Ma ogni intervento psicoterapeutico può avvenire solo all’interno di una relazione terapeutica in primis e poi da una conoscenza approfondita della psicologia, della psicopatologia e della struttura della personalità dell’individuo: come questi si relaziona con se stesso, con gli altri e con il mondo.
Alcuni modelli psicoterapeutici hanno una storia e riconosciuta affidabilità sia epistemologica che operativa sul campo, ma accanto al modello è fondamentale ed imprescindibile la capacità, la cultura, la sensibilità dello psicoterapeuta affinché la psicoterapia diventi un’arte ben realizzata.
Non ci si può definire “vero clinico” quando si vive lontano dal problema reale della sofferenza fisico/psichica del paziente. O si è clinici oppure si è fuori dalla competenza tecnico – scientifica o “arte”, come la si vuol considerare.
La nevrosi è sempre un sostituto di una sofferenza legittima (C.G. JUNG) e il sintomo non è che la superficie del problema (Tissot/Iorio et alii). E’ auspicabile andare oltre il sintomo affinché avvenga il vero confronto tra l’uomo e la propria sofferenza, dalla cui mancata risoluzione nasce e si struttura il “sintomo”. (1)
L’attuale prospettiva Psichiatrica, tesa ad incasellare e a sistematizzare le patologie, a sviluppare protocolli terapeutici standard (come nella clinica internistica: a tale batterio corrisponde tale antibiotico) dell’essere psichico, sta spegnendo la ricerca della dinamica dello sviluppo e del significato della sofferenza umana, nell’ambito della quale si organizza e si struttura successivamente il sintomo.
Quest’ultimo non può altro che poi essere l’epifenomeno di un lungo e complesso processo evolutivo ed adattivo.
Partendo da queste premesse, qualsiasi forma di psicoterapia che si orienta come la psicofarmacologia sul sintomo resta polarizzato alla superficie del problema (maquillage psico – terapeutico).
L’organizzazione della vita psichica non è un ammasso di regole e di esercizi. L’uomo andrebbe visto sempre nella sua globalità psico – fisica, nella sua storia che è unica, densa di significati che dobbiamo rispettare e comprendere nella totalità del suo “essere”. Quando certe psicoterapie non considerano tali principi, si compromette “a priori” la loro validità. Allo stato di un’epoca della “globalizzazione” dominata dal principio del “fondamentalismo economico” stiamo diventando osservatori passivi. Non è copiando gli altri che così diventiamo cosmopoliti o emancipati.
Se abbandoniamo la nostra storia, le nostre tradizioni culturali (mi chiedo quanta storia e saggezza hanno gli USA rispetto alla cultura europea, araba o cinese?) danneggiano la nostra identità imitando e soggiacendo alle influenze opportunistiche altrui.
Come può Halloween essere una festa per noi se non ci appartiene? Il nostro paese è già ricco di tradizioni che molti non conoscono e che sono di una profondità umana e culturale speciale. Volgere di tanto in tanto lo sguardo al passato non significa “frenare” il corso della storia. Significa invece attingere gli elementi fondamentali che evitano la deriva.
Siamo fautori del “guardare sempre avanti” con il riferimento anche in psicoterapia. Ma se andare avanti significa non guardare dove si mettono i piedi, nè accorgersi che ci si sta dirigendo verso un burrone, allora è da stupidi non fermarsi a cogliere nei ricordi e dai grandi maestri del passato quegli insegnamenti utili ad evitare i precipizi.
La psicoterapia rientra nel concetto di “terapia” a tutti gli effetti.
Ciò significa che essa per essere considerata valida non può che attenersi a dei criteri di scientificità, equivalenti a quelle delle altre terapie: innanzitutto una conoscenza clinica del paziente e non solo quella attinta da un modello teorico di studio; una conoscenza psicopatologica che equivale, sul piano psichico, a quella fisiopatologia delle malattie fisiche ( se non conosci la malattia, non puoi neanche curarla); una conoscenza medica che consenta non solo la diagnosi differenziale con le malattie psicorganiche, ma anche l’indicazione della giusta interazione fra l’intervento psicofarmacologico e quello psicoterapeutico, gestiti da una sola figura competente, quello dello Psichiatra. Chi non ha conoscenza medica non può decretare, di fronte ad un disturbo psichico, la necessità o meno dell’intervento farmacologico. Sarebbe assurdo ma invece lo è: nelle Università sia di medicina che di psicologia non si delineano più i confini e le reali competenze. La colpa è della politica e di quei docenti incapaci e pavidi di sancire le giuste e reali competenze tra le professioni, a discapito quindi del paziente.
Non si può prescrivere uno psicofarmaco, se non in una visione d’insieme psico – biologica. La separazione della psicoterapia dalla psicofarmacologia è un bluff, un artificio nelle mani o di chi non sa usare gli psicofarmaci, o di chi non può usarli o di chi, pur potendoli usare, non li sa gestire insieme alla somministrazione di psicoterapia, perché non la conosce.
Oggi la psicoterapia, in molti casi, è diventata un’arte dialettica nelle mani di chi la utilizza o a proprio beneficio professionale, o, nella peggiore delle ipotesi, per colmare l’ignoranza e l’arroganza immensa, di fronte a ciò che non si conosce. Un uso smodato e selvaggio o superficiale della psicoterapia, volto solo al sintomo, mentre giova alle tasche e alla presunzione di molti incompetenti e abusivi, danneggia e a volte perennemente il benessere di molti pazienti. Riflessione: è più semplice eliminare un farmaco somministrato impropriamente (dopo qualche giorno l’effetto negativo svanisce) rispetto a delle manovre psicoterapeutiche inadeguate (una parola, un giudizio, una indicazione erronea data ad una persona sofferente può restare stampata nella mente per lungo tempo e compromettere la libertà psichica).
Quanti tipi di psicoterapia esistono?
Diverse, oltre un centinaio, troppe.
Quante verità psicoterapeutiche esistono? La risposta dovrebbe essere: “UNA”. Infatti due verità o si sovrappongono (diventando la stessa verità), o una esclude l’altra, cioè una è falsa.
Come fanno, allora, tante psicoterapie diverse a rivestirsi tutte della connotazione di “verità”? Anche se ognuna di esse affrontasse un aspetto diverso dell’essere umano, nessuna potrebbe cogliere la globalità dell’essere umano. I vari modelli di psicoterapia rappresentano, quindi, tanti parziali modi di interpretazione dello sviluppo psichico (formulati in maniera più o meno scientifica o anche “ascientifica”), ma nessuno, singolarmente preso è capace di rendere ragione delle complesse spiegazioni del sistema “uomo”.
Molti modelli sono “filosofie” del modo di intendere la conoscenza umana, a volte lontana dalla verità dell’essere e, quindi, assai soggettive.
L’inflazione creata da questi innumerevoli modelli, ha compromesso, talvolta, la scientificità stessa del concetto di psicoterapia, che resta, un’arte terapeutica, che in pochi possono esercitare e la cui configurazione scientifica si rivela solo quando essa si sgancia dalle particolarità dei singoli modelli, pur inglobandoli tutti, quando diventa estremamente comunicativa e quando raggiunge elevati livelli di efficacia in tempi relativamente brevi.
NOTE
(1) Quanto sarebbe utile se materie, come la Filosofia, l’Antropologia, la Pedagogia, riappropriandosi di una funzione e di un ruolo, ormai svalutati, educassero le menti alla comprensione dell’uomo: delle sue debolezze, dei suoi limiti, delle sue sofferenze, del suo dolore, delle sue “battute d’arresto” di fronte a certi ostacoli reali della vita, delle sue transitorie e “liberatorie” follie (intese come “altro” dal consueto) e delle sue normali diversità. E come sarebbe appropriato considerare tutto ciò come parte integrante della sua naturale umanità…
Ma per imparare tutto questo, bisognerebbe educare l’uomo a “vivere”. Solo vivendo ed incontrando l’altro da vicino a tutti i livelli, si può arrivare a conoscere il vero volto dell’essere umano.
Solo conoscendo l’uomo, la sua storia, si può elaborare un concetto (difficile da definire, tra l’altro) di “normalità” o di patologia.
Ma quando si costruiscono “a tavolino” paradigmi e categorizzazioni di patologie, allora si che siamo di fronte a vere e proprie distorsioni professionali enormi e dannose, perché arrecano vantaggi solo ai grossi interessi economici o a gruppi professionali, capaci solo di speculare su “patologizzazioni” del normale, applicando elaborati pseudoterapeutici, lontani da qualsiasi criterio scientifico.
Come si può “inventare” un approccio terapeutico, senza la conoscenza esperienziale dell’essere umano?
Oggi assistiamo o alla più ridicola delle psicologizzazioni di un disturbo o al più arido dei riduzionismi biologici della storia. Tutto questo, mentre vengono confezionate etichette di malattie psichiche a “tavolino; che non hanno nessuna ragione d’essere.
Queste considerazioni non sono semplici elaborazioni teoriche, ma derivano da un’esperienza pratica professionale, che quotidianamente rende testimonianza di prodotti deleteri di “psicoterapie selvagge ed inappropriate”.
Non è possibile che un paziente, dopo due tre anni e con due tre sedute settimanali, oltre a non avere tratto nessun beneficio terapeutico, non abbia ancora definito lo scopo del suo trattamento. Quando a volte si chiede ad uno psicoterapeuta il motivo di tutto ciò, in genere si ottiene come risposta: “è colpa del paziente”.
Eppure il primo compito di uno psicoterapeuta di fronte all’insuccesso del suo trattamento, dovrebbe essere quello di chiedersi dove lui stesso abbia potuto fallire o non essere efficace. Ma oggi non si educano i futuri psicoterapeuti ad allenarsi in questa pratica introspettiva.
Sarebbe ora che si cominciasse a rivedere il lavoro di formazione dei vari modelli e scuole di psicoterapie, a valutarne la scientificità, ma soprattutto ad esaminare seriamente le capacità personali e culturali di chi è chiamato a svolgere in futuro la cura delle persone. Non si possono mettere armi in mano a chi non le sa o non le può usare.
Lo Psichiatra definisce così la propria identità e la propria linea di demarcazione dal Neurologo, che è, e resta, uno specialista del corpo e delle malattie fisiche, non avendo alcuna competenza del mondo psichico, e definisce la sua differenza dallo Psicologo, da cui lo separa un abisso: tutta la competenza della psicopatologia che è appannaggio della Psichiatria e nella quale ultimamente la psicologia cerca di far capolino con l’intento di appropriarsi di alcuni strumenti operativi, di cui non è competente, per trovare sbocchi operativi utili al proprio mestiere.
Dr. Riccardo Pulzoni